Di Fusco e la lezione del tempo
Unanime cordoglio, nel mondo della scuola e della cultura pordenonese, per la scomparsa del professor Gianni Di Fusco. Vinto dal male a 76 anni, ha lasciato nella comunità un ricordo indelebile. I funerali saranno celebrati oggi alle 15 nella chiesa parrocchiale del Sacro Cuore. Con il Messaggero Veneto il professor Di Fusco aveva un rapporto particolare. Lo ha ricostruito il nostro vicedirettore Giuseppe Ragogna, che lo ha ricordato così.
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«Ghe xe el profesor». I colleghi del Messaggero Veneto annunciavano così l'arrivo di Gianni Di Fusco in redazione. Giungeva in bicicletta, dopo aver compiuto un giro largo per mantenersi in forma. Entrava sorridente, scambiando una parola con tutti. Sotto il braccio aveva la solita cartellina rigida, ormai consunta dagli anni. Probabilmente era la stessa che usava, ai tempi dell'insegnamento, per raccogliere i temi in classe. L'apriva e consegnava un paio di cartelle dattiloscritte su argomenti vari, soprattutto di costume, trattati in assoluta libertà. Dopo una lunga collaborazione con il giornale, aveva lasciato il campo in punta di piedi, come peraltro era entrato, «messo forzatamente in pensione», come diceva scherzando, dalle nuove tecnologie, alle quali non voleva adeguarsi, rimanendo fedele alla vecchia macchina per scrivere. Non si fidava di lasciare ribattere ad altri i suoi articoli: «Appartengo a un'altra generazione. Voi giornalisti avete troppa fretta ed è giusto che io mi ritiri». Così si è allontanato progressivamente dalla redazione, però con me ha mantenuto un forte vincolo di amicizia. Mi spronava a scrivere, soprattutto su Pordenone, storia e analisi, «perché bisogna documentare – diceva – valori e tradizioni che stanno scomparendo». Era una sfida continua al “fare”, che partiva da una persona arguta, da un intellettuale profondo. Gianni non accettava mai la superficialità del dialogo. Esigeva la riflessione e la ricerca su ogni argomento perché, prima di tutto, era rigoroso con se stesso.
All'inizio della nostra amicizia, quando ancora non conoscevo le sue abitudini, un pomeriggio l’avevo cercato per chiedergli un consiglio. La sua risposta era stata sbrigativa, ben diversa dalla sua consueta disponibilità. Perché? L'ho capito qualche mese dopo: ogni pomeriggio era solito chiudersi in meditazione nel suo studiolo, ricavato al piano superiore dell'abitazione. Si era imposto una sorta di “clausura”, che non poteva essere interrotta per nessun motivo, neanche dalla moglie Lucilla, “la tedesca” come era solito chiamarla, per mascherare un'affettuosità nei suoi confronti che non gli garbava manifestare in pubblico. In quelle ore restava isolato dal “mondo”. E, per rimarcare il distacco, si infilava i tamponi negli orecchi. Non voleva sentire alcun minimo rumore. Quel tempo, che gli passava velocemente, era dedicato alla riflessione e alla scrittura. Nella solitudine della stanzetta provava e riprovava parole e frasi, ripensate fin nella punteggiatura, fino a raggiungere la forma di linguaggio più efficace a trasmettere emozioni e stati d'animo, capaci di giungere in profondità.
Da quel luogo di ricercata solitudine sono uscite tante poesie, che ha voluto scrivere fino agli ultimi giorni della sua esistenza. Ne aveva pronte altre 300, che dovevano essere selezionate per la pubblicazione. Di tanto in tanto abbandonava momentaneamente i suoi “versi” per dedicarsi agli articoli, soprattutto dopo i rimbrotti della moglie: «Gianni, basta poesie». Ma poi ritornava rapidamente alla sua grande passione, che gli permetteva di raggiungere l'armonia, il punto più alto della ricerca interiore. Per la verità, l'ho incoraggiato anch'io a dedicarsi ad altri generi letterari, soprattutto ai racconti brevi, più diffusi commercialmente, per poter raggiungere così un pubblico più vasto, perché Gianni meritava una grande “platea”. Con la sua spiccata sensibilità sapeva parlare direttamente al cuore, riuscendo a toccare le corde dei sentimenti più profondi. Nel suo ultimo libro, “Il passato che non passa”, edito dall'Omino Rosso, ha raccolto tanti ricordi di guerra. Ha avuto successo perché ha saputo raccontare, con linguaggio semplice, luoghi, episodi, personaggi. Il giorno della presentazione, in occasione di Pordenonelegge, era felice come un bambino, al punto da festeggiare l'evento alla sua maniera: un paio di bicchieri di Prosecco e un piattino di patatine. Era l'extra che si concedeva, non essendo amante del cibo. Non c'è mai stato verso di dirottare la conversazione sui sapori della gastronomia. Al massimo parlava dei pomodori e dei cetrioli che coltivava nel piccolo orto, di qualche buon piatto che gli preparava la moglie. Tutte “cose” marginali, perché la sostanza gli era data dai libri. Tanti. Agli amici dava un lungo elenco di opere, che aggiornava ogni anno. In testa al foglio aveva scritto di suo pugno: «Da leggere assolutamente». Era l'esercitazione per il tempo libero.
Sempre disponibile a dispensare consigli, Gianni si proponeva con umiltà come correttore di bozze, senza percepire nulla in cambio. E così la sua stanza si riempiva di lavori di ogni tipo, che lui leggeva e sistemava con grande cura. Talvolta sbuffava, ma non scartava nulla. Devo riconoscere che alle mie bozze prestava un occhio di riguardo, per questo era particolarmente rigoroso. Così, con la matita, tracciava sui fogli segni di ogni tipo, da professore pignolo. E sui margini bianchi riportava i suoi consigli, che potevano essere anche scartati, ma dopo una lunga discussione. Che battaglie per una virgola! E se alla fine il libro conteneva refusi, la sua telefonata diventava rovente. Urlava. Era un inguaribile professore.
Purtroppo, la presentazione de “Il passato che non passa” è stata anche una delle sue ultime apparizioni in pubblico. Poi la malattia non ha avuto pietà. Ha consumato come una candela il suo fisico fragile. Non gli ha lasciato tregua, ma non gli ha tolto mai la dignità. Le cure debilitanti lo hanno allontanato dalla vita attiva. Però, nonostante tutto scriveva, meditava e scriveva. Fino all'ultimo istante, perché aveva una grande voglia di comunicare. Spesso a modo suo modo:attraverso forme taglienti, talvolta scanzonate, anche provocatorie. Ma mai offensive. Voleva solo raggiungere l'obiettivo di far riflettere. I suoi messaggi miravano a liberare le coscienze da condizionamenti ideologici, politici e religiosi. La sua attenzione era rivolta soprattutto a chi soffriva e a quelli che definiva “gli ultimi”. Nell'ultimo scritto che mi ha consegnato, in prossimità della Pasqua, ricordava che «non si può accettare una società così sbilanciata, così miseramente lontana dai principi di fratellanza e di apertura verso i bisognosi». Desiderava volare alto. Il suo era un grido di libertà, senza imposizioni. E l'obiettivo era rivolto a invogliare alla ricerca continua, perché anche lui si lasciava tormentare dai mille dubbi. Una cosa era certa: non ammetteva ipocrisie.
Ciao Gianni, scusa se ho fatto qualche errore proprio nell'articolo che ti riguarda. Grazie di tutto, sei stato il mio “professor”, un vero amico.
Che la terra ti sia lieve.
Giuseppe Ragogna
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