DALL’ESODO ALLA CRONACA STORIA DI UN BARONE

di PAOLO MEDEOSSI I giornali non sono scarpe è il titolo di un libro uscito nel 1995 che racconta la biografia di uno dei più grandi cronisti italiani nel dopoguerra, anzi – secondo molti – proprio...

di PAOLO MEDEOSSI

I giornali non sono scarpe è il titolo di un libro uscito nel 1995 che racconta la biografia di uno dei più grandi cronisti italiani nel dopoguerra, anzi – secondo molti – proprio il numero uno. Si chiamava Tommaso Besozzi e il suo nome è sconosciuto al grande pubblico, forse agli stessi giornalisti di oggi, che pure dalle esperienze professionali di questo singolare personaggio potrebbero trarre utili insegnamenti. Besozzi era però diventato una sorta di mito per il modo in cui fiutava i fatti insoliti e poi ne riferiva scoprendo alcune delle grandi bugie della sua epoca, come quella riguardante l'uccisione del bandito Salvatore Giuliano. «Scriveva - si dice nel libro - come un farmacista dosa gli ingredienti di un medicinale che può rivelarsi pericoloso. Non amava la folla, i grandi fatti, i posti in prima fila. Disse una volta: se sai guardare, anche nel deserto succedono cose meravigliose».

Il riferimento a Besozzi, che era di Vigevano e morì nel '64, è utile per inquadrare la cornice nella quale si muovevano questi singolari cercatori di notizie che, perlustrando l'Italia di allora o il più ristretto ambito delle proprie città, erano a loro volta protagonisti in una commedia umana che aveva necessità della loro presenza, personalità e anche sensibilità. Pure la vicenda più banale poteva svelare in chi la narrava un tocco di classe, oltre che un affetto verso il proprio mondo che il lettore, meno distratto di quanto accade solitamente al giorno d'oggi, coglieva all'istante creando così un legame fra le due facce che compongono il pianeta dell'informazione, diviso fra chi è chiamato a narrare e chi apprende per costruirsi poi una propria opinione.

Anche Udine, dove i giornali sono sempre stati arrembanti, ha una storia originale da raccontare al riguardo, a cominciare dalla metà dell’Ottocento, dopo l'annessione del Friuli al Regno d'Italia, quando la fine della censura austriaca diede sfogo all'estro giornalistico di tanti baldi giovanotti. La mitologia udinese (e per saperne di più basta sfogliare i “sacri testi” di autori sopraffini quali Renzo Valente, Mario Quargnolo o Piero Fortuna) è ben rifornita di esempi. Per esempio, al 1954 risale una pubblicazione che celebrava i trent'anni di carriera dei “quattro moschettieri” del giornalismo friulano, ovvero Giorgio Provini (Aramis), Carlo Serafini (Porthos), Gian Mario Cojutti (Athos) e Arturo Manzano (D'Artagnan), tutti appartenenti a una dignitosa e agguerrita scuola che, al di là dei giornali di appartenenza, ha arricchito una vicenda in larga parte ancora da raccontare in maniera organica. E un allievo, diciamo quasi un nipotino, dei moschettieri è stato un cronista del Messaggero Veneto, un cavallo di razza in questo mestiere (come lo definì il suo capo, Mario Blasoni), che si chiamava Paolo Schinko de Rinaldi (foto), ma che praticamente tutti a Udine conoscevano come “il barone”. Non si trattava di un titolo usurpato, o di un richiamo al barone rampante di Calvino, ma di un dato reale in quanto apparteneva a una nobile famiglia austriaco-istriana di Fiume. Il nonno Alois era ufficiale di marina sotto Francesco Giuseppe e il padre Corrado, poi medaglia d'oro della marina italiana, caduto nel '42, aveva pure fatto parte di quella austroungarica nella prima guerra mondiale. Insomma la grande storia aveva pesato fortemente sulle vicende della famiglia fiumana, esule poi in Italia. Paolo arrivò a Udine nel '51 ricostruendo qui il suo mondo e cominciando a collaborare con i giornali. Lavorò per oltre un trentennio al Messaggero Veneto e morì improvvisamente all'alba del 13 gennaio 1992, a 56 anni. Ne scriviamo oggi trattenendo il fiume di ricordi e aneddoti che lo riguardano e che nelle prossime settimane riempiranno un libro, dedicato a questo giornalista che - come ha scritto Mario Blasoni - «nobile di casato e di portamento, viaggiava in Lambretta con lo stile di chi guida una Porsche». Schinko se ne andò in punta di piedi un attimo prima che cominciasse il giornalismo dei cellulari, dei computer, di Facebook. Dopo aver subìto lo sradicamento dalla sua amatissima terra, non avrebbe sopportato anche questo.

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