Da un tornio “scarcassato” un colosso della meccanica

L’avventura imprenditoriale di Aldo Ruffati, fondatore dell’omonimo gruppo «Le buste paga si davano ai genitori, tre ore di lavoro per il biglietto del cinema»



«Quand’ero piccolo mio padre Marco lavorava come agente di vendita delle macchine da cucire Singer. Non vendeva solo il nuovo: aggiustava, come era normale fare. Riparava e rivendeva i modelli fuori mercato. Tutto quel suo amore per la meccanica mi affascinava, volevo imitarlo». E così ha fatto, creando un colosso della meccanica, Aldo Ruffati, che oggi compie 95 anni.

Com’era la vita in famiglia?

«Fummo educati ai valori cristiani. In famiglia c’era concordia: si ritirava paga ogni quindici giorni e noi fratelli la si consegnava ai genitori».

La scuola?

«Mi piaceva studiare, purtroppo non c’erano abbastanza soldi per poterlo fare. Nel 1936, dopo le elementari, iniziai a frequentare una scuola di disegno tecnico. Nel 1928 mio padre volle mettersi a vendere frutta e verdura nei mercati e dolci nelle sagre. Noi figli lo aiutavamo».

Aspirava, però, a lavorare in una delle poche industrie meccaniche dell’epoca.

«Presentai domanda alla Savio: a 12 anni ci ero andato con mio padre a ritirare un pezzo che aveva ordinato. A 14 anni venni assunto alla Zanussi, allora in via Montereale: contava 75 operai. Era il 20 ottobre 1938. Il primo giorno vidi solo operai che indossavano tute sporche e rattoppate che si muovevano attorno ad altrettante macchine. In fabbrica incrociai Lino Zanussi: anche lui in tuta».

L’impatto?

«Il caporeparto mi consegnò una cassettina contenente viti che dovevo cromare e lucidare. Mi ero immaginato congegni meccanici e invece... Un giorno fui convocato in ufficio: mi dissero che ero trasferito nell’officina stampi e riparazioni. Era una bella notizia».

Il salto di qualità.

«Alla fine degli anni Quaranta, quando la Zanussi venne scelta come fornitrice di stufe a legna per le truppe germaniche che stavano in trincea. Il prototipo era difficile da ottenere e dopo 15 giorni non se ne veniva a capo. Io la soluzione ce l’avevo, ma non il coraggio di esporla: avevo 15 anni... Poi, il caporeparto mi diede credito: la realizzammo in 4 ore. Ricevetti i complimenti di Antonio Zanussi».

Dalla soddisfazione all’addio.

«Decisi di chiedere un aumento di stipendio, visto che lavoravo per 45-50 centesimi all’ora. Per fare un paragone, erano necessarie tre ore per permettersi il biglietto del cinema. Chiesi l’aumento. Quando mi venne consegnata la busta paga con grande tristezza notai che nulla era cambiato. Tornai da Zanussi che mi disse: “Se ti va bene così resti, altrimenti quella è la porta”. Con amarezza me ne andai».

Il 5 luglio 1941 viene assunto alla Safop.

«Lì si costruivano torni. Superai la prova e il titolare, Francesco Coran, mi proposte una lira e 60 centesimi all’ora. Era il triplo di quello che percepivo alla Zanussi. Esitai e rilanciò: due lire e 30. Riuscivo a lavorare sino a 125 ore in due settimane, per 287 lire di paga».

Sono gli anni della seconda guerra.

«Il 5 luglio 1944, dopo la guerra (espletai il servizio militare nella Marina, nel 1943), tornai alla Safop. Nel 1945 venni richiamato militare. E finalmente nel 1947 ripresi il mio lavoro alla Safop. Con mio fratello Gino, intanto, avevo sistemato una piccola officina in via Spin dove papà teneva il cavallo. Lavoravamo la sera e il fine settimana. Avanzava l’idea di mettersi in proprio. Un amico aveva un’officina di riparazione di macchine per maglieria in via Baracca. In un angolo aveva un piccolo tornio che non usava. Gli chiesi di noleggiarmelo: così, cominciai ad accettare piccole commesse di tornitura».

Come nacque la sua azienda?

«Nel 1948 alla Safop arrivarono macchinari a suo tempo requisiti dai tedeschi. Comprai un tornio scarcassato a poco prezzo. Lo restaurai con mio fratello utilizzando alcuni pezzi prelevati da un camion militare americano in rottamazione. Cominciammo un vero e proprio lavoro di tornitura e le ordinazioni furono numerose. Nell’autunno 1949 mi dimisi dalla Safop mentre mio fratello Gino continuava a lavorare alla Zanussi, ma nelle ore libere mi dava una mano».

E siamo al 1950.

«Costruimmo il primo trapano Rag, Ruffati Aldo e Gino. Dopo qualche mese fui in grado di assumere un apprendista. Già negli anni Sessanta i nostri trapani andavano alla grande, venivano chiesti in tutta Italia e cominciavamo ad esportare in Europa».

Commendatore, siamo all’oggi.

«L’Italia vanta bravi giovani che però non escono dai confini dei loro obiettivi accademici. Manca un legame profondo tra scuola e impresa. La situazione sociale ed economica, poi, non è delle più promettenti, come lo era negli anni che, con passione, cominciavamo a costruire quelle che sarebbero diventate grandi fabbriche. Credo che l’introduzione dell’euro mal gestita e i flussi incontrollati di migranti abbiano contribuito al declino del Paese e della sua identità. L’8 settembre 1943 fuggii dai tedeschi e arrivai a Pordenone dopo 5 giorni di cammino. All’epoca ero a Pola: i partigiani slavi mi presero la bicicletta, ma proseguii a piedi. Da Parenzo i pescatori mi portarono a Grado per 5 lire. Con tanti altri abbiamo combattuto per l’Italia, spesso ci si dimentica proprio di questo». —



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