Contachilometri manomessi: assolti concessionario e venditore

Udine, erano finiti a processo con l’accusa di frode in commercio dopo la denuncia di un acquirente. L’istruttoria ha dimostrato che non erano stati loro a truccare la strumentazione di bordo dell’auto

UDINE. Era stato additato come il presunto responsabile della manomissione del contachilometri di un’auto usata che la sua concessionaria, la “Gieffecar srl” di via Baldasseria Bassa, aveva venduto a un cliente, e che si era poi scoperto avere percorso invece quasi il doppio della strada dichiarata.

Una volta appurata la sua estraneità dai fatti, gli stessi sospetti erano caduti allora sul dipendente che aveva personalmente seguito la vendita. Ma l’istruttoria dibattimentale aveva nuovamente escluso l’ipotesi della frode nell’esercizio in commercio formulata dalla Procura.

Il caso, che si è chiuso qualche giorno fa con la seconda delle due sentenze di assoluzione pronunciate dal giudice monocratico di Udine con la formula «per non aver commesso il fatto», ha quindi sgomberato il campo da qualsiasi dubbio rispetto alla correttezza dell’operato di Marco Cargnelutti, concessionario di 48 anni, di Buja, e di Nicola Grassi, addetto alle vendite di 35 anni, di Nimis, così come rispetto all’affidabilità dell’azienda anche nel settore della rivendita dell’usato.

All’acquirente era bastato un controllo casuale sul navigatore non di serie installato sull’auto, un’Alfa Romeo 159, per capire di avere comperato un veicolo con molti più chilometri percorsi di quelli che gli erano stati fatti credere nei suoi tre anni di utilizzo: non i 90.135 indicati dalla strumentazione di bordo, bensì gli oltre 160 mila noti alla società che, a sua volta, aveva venduto il veicolo alla Gieffecar.

E questo, considerata la spesa sostenuta - 13.500 euro, con consegna il 16 settembre 2011 -, ne aveva ulteriormente aumentato il disappunto. Da qui, la denuncia sporta con l’assistenza dell’avvocato Lorenzo Reyes e l’avvio del primo procedimento a carico di Cargnelutti.

Il processo era cominciato nel 2014 e, su richiesta della difesa, si era svolto nelle forme del rito abbreviato, condizionato tra l’altro all’assunzione della testimonianza del dipendente che aveva trattato la vendita: Grassi, appunto.

A convincere il giudice Mariarosa Persico che con la frode l’imputato non c’entrasse niente erano stati sia la sua assenza dall’azienda nel periodo in cui l’affare si era perfezionato, come dimostrato dall’avvocato Nadir Plasenzotti, sia, soprattutto, il fatto che «le sigle apposte in calce alla proposta e alla scheda di valutazione tecnica attestanti il falso chilometraggio non fossero risultate a lui materialmente riconducibili».

Uscito di scena il legale rappresentante, la grana era tuttavia rimbalzata sul suo dipendente, per il quale il giudice aveva trasmesso gli atti in Procura, affinchè ne fosse valutata la posizione.

«Nulla esclude – aveva motivato il magistrato – che il venditore induca con false rappresentazioni l’acquirente all’acquisto, per lucrare le proprie provvigioni, tenendo all’oscuro il datore di lavoro».

Celebrato a sua volta con rito abbreviato - questa volta secco, risultando sufficienti i documenti portati dalla difesa - il processo si è concluso con una seconda assoluzione, nel suo caso piena e senza margini di dubbio, emessa a fine giugno dal giudice Paolo Lauteri.

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