C'era una volta Udine: capitale decaduta senza sogni nè leader

C’è un piccolo dipinto nei Musei Civici di Udine. Molto bello e importante per i significati che, volendo usare un po’ la fantasia, racchiude e ci svela. Ma non è esposto e nessuno lo può vedere perché mancano i fondi per il suo restauro. Si intitola “L’estasi” ed è il ritratto di una ragazza, ammiccante e un po’ maliziosa. Una sorta di simpatica Gioconda udinese. Sorprendente il nome dell’autore, Giuseppe Malignani, che era il papà del più celebre Arturo, l’industriale e scienziato di cui nel 2015 ricorrono i 150 anni della nascita. Tanto visionario e artistoide fu il padre, tanto visionario e concretissimo divenne il figlio.
In sintesi, si tratta di una straordinaria storia udinese, emblematica per tanti aspetti, da narrare in un racconto che possiamo far partire proprio da quell’immagine, quasi fosse un sogno di estasi ormai perduta, simbolo di un destino con cui la città adesso deve confrontarsi sempre più, a causa di eventi ben noti, ma anche con una specificità locale. Ogni tramonto diventa l’esito intrecciato di più motivi, in un insieme che alimenta gli stati d’animo tipici nelle fasi di depressione, fra rabbie convulse, egoismi forti e paure drammatiche verso ciò che ci attende e non sappiamo capire.
La morsa stringe Udine, in senso economico e psicologico. Il quadro si fa durissimo, angosciante, colpendo in particolare la classe media, quella su cui si fondava ampia parte del reddito e della struttura sociale, quella che si reggeva sul commercio, sulle attività artigianali, su modalità di vita che alla fine erano alla base della stessa “udinesità”. Lo scenario che si coglie diventa ogni giorno più sconfortante, anche se una parte della verità più cruda è nascosta dalla dignità con cui le famiglie affrontano problemi imprevisti fino a pochi anni fa, oltre i quali si colgono sporadici segnali di speranza. C’è un impoverimento progressivo che tormenta nel profondo chi non era abituato a convivere con la precarietà, vista come un incubo e un muro insormontabile.
Il più noto fra i nostri scrittori, Carlo Sgorlon, che pure era un tranquillo moderato, disse un giorno: «Noi friulani sappiamo, per ragioni ataviche, che niente di buono può venire dal potere centrale e contro di esso esercitiamo il mugugno, il brontolio, la protesta segreta. Però la reazione violenta non si addice al nostro carattere. L’anarchismo dei friulani è infatti privato, ordinato, individuale. Una sorta di individualismo costruttivo, laborioso. Il friulano è un homo faber, esprime la propria personalità nel costruire». Parole che risalgono a una trentina di anni fa, subito dopo il terremoto del 1976, quando in una notte il Friuli era precipitato in un medioevo ben peggiore di quello precedente. Va ricordato che la nostra terra era la più arretrata nel Nord Est dove il Veneto faceva la parte della locomotiva efficace e travolgente. Il sisma poteva dare il colpo di grazia a una regione che aveva pagato fino agli eccessi il fatto di essere zona delicatissima di confine e di non trovare un equilibrio fra le esigenze di Trieste (la cui italianità, dopo essere stato primo porto dell’Impero asburgico, doveva pur avere un costo) e quelle del Friuli.
Ma da un pericolo gravissimo e da una devastazione enorme, provocata dalle scosse telluriche, nacque l’ennesimo miracolo, dopo quelli già verificatisi con la rinascita dai danni della prima e della seconda guerra mondiale. E fu il miracolo più eclatante, tanto da essere considerato un caso unico in Italia. La ricostruzione (con protagonisti il carattere e il sacrificio dei friulani, spiegati da Sgorlon) non era stata perfetta in ogni modalità e scelta, ma nell’insieme rappresentò l’occasione per restare attaccati alla famosa locomotiva veneta. Perso quel treno, non ne sarebbero transitati altri.
A pilotare l’operazione, grazie agli aiuti ricevuti, fu una classe politica e imprenditoriale che era ancora quella nata con il boom degli anni Cinquanta e Sessanta, capace di fare scelte coraggiose e di avere il carisma indispensabile per affrontare tensioni e contrasti.
Ma questa fase non venne accompagnata da quella successiva, e cioè dal consolidamento effettivo di un’economia in grado di reggere alle sfide del mercato dopo il superamento dell’emergenza. All’inizio degli anni Novanta lo scenario cambiò e cominciò un’altra storia. Racconti e discorsi remoti certo, ma all’origine pure delle difficoltà attuali di Udine, che come ogni città e regione ha necessità di una guida totalmente affidabile, riconosciuta, in grado di suscitare attese e speranze, inseguendo il sogno di un qualcosa, che sia anche la timida estasi sotto le sembianze d’una ragazza dipinta.
Ci fu un sindaco, Angelo Candolini, pur contestato alle volte nella realtà quotidiana, che nel 1983 dal cilindro magico tirò fuori il Millenario della città. Certo, esisteva un documento che sosteneva la tesi, ma pochi se ne ricordavano. L’evento coinvolse tutti, fu all’origine di manifestazioni e di una riscoperta della nostra storia, con libri bellissimi. Candolini e la sua giunta avevano agito da concreti visionari, come aveva fatto a inizio secolo Arturo Malignani riempiendo Udine e il Friuli delle sue intuizioni, tra cui il tram bianco per Tricesimo e Tarcento, pur dovendo sostenere battaglie acerrime con i contrari. Idee che spuntavano dal deserto, dal nulla, ma condotte con passione e talento.
Nella attuale fase grigia rispuntano inevitabilmente i motivi di attrito o rivalità in ambito regionale, per esempio con Pordenone. Problemi assurdi anche per la evidenti diversità storiche, sociali ed economiche fra le città. L’una, Udine, più legata ai miti del Patriarcato e della Piccola Patria, mentre Pordenone ha un’anima industriale straordinaria, quella che con le iniziative di Lino Zanussi le fece raddoppiare la popolazione in vent’anni richiamando una immigrazione qualificata e di quadri, che si riflettè sulla sua vita culturale.
E poi le collaborazioni fra i due capoluoghi, quando impostate in modo serio e avveduto, hanno dato risultati importanti come avvenne nel 1966 quando Zanussi acquisì la società editoriale del Messaggero Veneto, assieme a Carlo Melzi e agli industriali udinesi. Udine è rimasta ora senza sogni, senza estasi e la sua classe politica sembra arroccata in un fortino. Chi fa politica sconta inevitabilmente le colpe dei predecessori, accusati di essersi garantiti privilegi e vitalizi assurdi lasciando in braghe di tela il popolo. Solamente politici davvero francescani e geniali potranno nel tempo e con pazienza ricucire questo rapporto doloroso, che alimenta rabbia e rancore infinito.
Fino a qualche anno fa la gente sapeva bene i nomi di deputati, senatori, assessori. Adesso tutte figure anonime, distanti, accomunate nel giudizio negativo. E nella sfiducia collettiva la città in declino intanto si aggrappa al tourbillon di bar, caffè e osterie, con i quali chi li gestisce si procura una forma di sostentamento più che un vero guadagno. Si aggrappa alla provvidenziale presenza dell’università (guai se non ci fosse con i suoi 800 dipendenti e i 16 mila studenti iscritti). Si aggrappa alla multietnicità diffusa visto che il concetto di “Borgo Stazione” si sta allargando agli altri quartieri e al centro, dove i cinesi sbarcano ovunque. I simboli di questi anni difficili restano così due opere: il parcheggio di piazza Primo Maggio e il rifacimento dello stadio Friuli, unici mega progetti udinesi spuntati nell’ultimo mezzo secolo assieme al Teatrone.
Un po’ poco per sognare, gol di Totò Di Natale a parte.
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