Bonami, addio polemico:«Ora faranno tabula rasa»

«Spero che il mio successore abbia qualche idea a riguardo e non venga dimenticato tutto o, peggio, gettato via. Ma la sensazione è che si voglia fare tabula rasa». È un addio polemico quello di Francesco Bonami, direttore artistico uscente di villa Manin, a fronte della decisione, da parte della nuova giunta regionale, di non continuare l’attività di villa Manin sul fronte dell’arte contemporanea.
di Sabrina Zannier


CODROIPO.
L’apertura, nel 2004, del Centro d’arte contemporanea di villa Manin ha dato avvio a un istituzionale e impegnativo capitolo sull’arte visiva che, in regione, veniva per lo più promossa e sostenuta da associazioni, operatori culturali e privati. A parte il Centro di Passariano, che finora ha detenuto una sorta di centralità, nel nostro territorio questo specifico linguaggio cresce e fermenta in diversi contesti, quelli più istituzionali — come lo Spac di Buttrio e la Galleria d’Arte Contemporanea di Monfalcone, che si distinguono con un lavoro puntuale e tra loro differenziato, più attento al contesto regionale il primo, e a quello nazionale il secondo — e quelli offerti dalle rassegne pluriennali, dalla programmazione delle associazioni culturali, da qualche sporadica mostra museale e dall’attività continuativa delle gallerie private.


A fronte della decisione, da parte della nuova giunta regionale, di non continuare l’attività di villa Manin sul fronte dell’arte contemporanea, bisognerebbe capire in che direzione muoversi per alimentare un settore verso il quale anche il nostro territorio dimostra crescente interesse.


Due potrebbero essere le vie: individuare una nuova centralità istituzionale, magari in un luogo meno vincolante di villa Manin dal punto di vista della connotazione architettonica preesistente, ma nella prospettiva di relazionarlo con le altre offerte di settore, sia in fase progettuale e programmatica, sia per quanto concerne la comunicazione, che necessita di unitarietà regionale, per evitare sovrapposizioni di date e una migliore e capillare informazione. Oppure conferire valore istituzionale, attraverso finanziamenti più solidi e garantiti, alle rassegne e alle iniziative che hanno dimostrato continuità e radicamento, inserendole, anche in tal caso, in un circuito progettuale, programmatico e comunicazionale, in ogni caso aperto ad ulteriori crescite. Questa seconda ipotesi avvallerebbe il principio della disseminazione dell’arte contemporanea nel territorio regionale che, pur a fronte di puntuali progetti e identità operative, offrirebbe un ricco circuito di offerte capaci di promuovere diverse location, alimentando pure l’indotto del turismo.


Abbiamo rivolto alcune domande a Francesco Bonami, giunto al termine del suo mandato di direttore artistico del Centro di Villa Manin, per un bilancio sul lavoro svolto e per ascoltare il punto di vista di un curatore internazionale che si è affacciato sulla scena artistica della nostra regione.


Arrivare a villa Manin nel 2004 per dirigere un nuovo Centro d’arte contemporanea è stata una bella sfida, per lei che già allora dirigeva istituzioni ampiamente riconosciute. A Passariano era necessario dare una puntuale identità al Centro, da un lato radicandolo nel territorio e dall’altro conferendogli visibilità nazionale e internazionale. Su questi tre aspetti qual è il bilancio dopo cinque anni?

«Eccellente. Dove non esisteva niente legato all’arte contemporanea è stato costruito da zero un Centro che oggi è conosciuto in Italia e nel mondo. Dovunque vado professionisti internazionali mi chiedono quale sarà il programma futuro di villa Manin. Con molta malinconia devo rispondere che il Centro di arte contemporanea forse non avrà futuro. Rimangono sempre molto perplessi. Come se a Chicago, cambiando il sindaco o il governatore dello stato dell’Illinois, il museo di arte contemporanea dovesse ricominciare tutto da capo o addirittura trasformarsi in qualcosa di completamente diverso. Solo in Italia esiste questo inquinamento totale della cultura da parte della politica».


Nel 2004 il Centro di villa Manin ha rappresentato una novità in Friuli Vg, in quanto unica realtà in grado di garantire un’attività continuativa a livello internazionale sull’arte contemporanea, anche a fronte di consistenti finanziamenti sui quali altre iniziative non hanno potuto contare. Ma la regione su questo fronte non era certo una tabula rasa. Tanto che ad apertura del Centro avete riunito tutti gli operatori per un contatto con il territorio e, con alcuni di loro, avete collaborato. Che impressione ha avuto della realtà culturale di questa regione?

«Certo si poteva fare di più e di più si sarebbe fatto se non avessimo sempre lavorato con la spada di Damocle del numero di visitatori e del ritorno di stampa. Tuttavia credo che dal 2004 a oggi ci sia stata una vera e propria maturazione da parte di chi già da tempo lavorava sul territorio con serietà. Non per merito del Centro, ma di un dialogo reciproco e della presa di coscienza dei diversi ruoli. Se agli inizi villa Manin veniva vista come un contenitore da sfruttare, poi si è capito che con la coerenza del programma il Centro portava visibilità a tutta la regione. Insomma, se prima un giorno sì e un giorno no qualcuno proponeva una mostra da fare a villa Manin, con il passare del tempo non ricevevamo più proposte ma annunci di progetti complementari al Centro».


Non ho mai condiviso la formula espositiva dello Spazio Fvg, che ghettizza gli artisti regionali rispetto alle grandi mostre, pur dandogli visibilità, mentre ho trovato interessante e produttiva l’iniziativa del concorso Maninfesto. Suddiviso per linguaggi creativi — prima la pittura, poi la fotografia e, nella prossima edizione, scultura e installazione — ha il merito di visualizzare uno scenario aggiornato sullo stato della ricerca artistica in regione. Rispetto al panorama internazionale cosa pensa dei nostri artisti?

«La ghettizzazione è sempre stata il rischio dello Spazio Fvg. Invece Manifesto ha dato risultati più nuovi e imprevisti. Tuttavia con Spazio Fvg abbiamo fatto un lavoro di mappatura che in certi casi è servita in altri meno. Ritengo però che Spazio Fvg fosse un progetto chiaro. Credo sempre più ambiguo inserire qualche nome locale in mostre internazionali solo per dare il contentino al territorio, senza veramente credere che gli artisti invitati siano allo stesso livello. Insomma, lo Spazio Fvg aveva i suoi limiti ma almeno gli artisti potevano lavorare in un contesto riconosciuto a livello internazionale».


Il concorso Maninfesto vi ha permesso di raccogliere un consistente materiale visivo e informativo, che potrebbe rappresentare il primo tassello di un archivio degli artisti del Fvg. C’è da augurarsi che questo materiale non venga disperso.

«Spero che il mio successore abbia qualche idea a riguardo e non venga dimenticato o, peggio, gettato via. La sensazione è che si voglia fare tabula rasa. D’altronde avrebbe voluto fare tabula rasa anche gente che invece avrebbe dovuto sostenere il progetto come il capo della comunicazione della Regione, Fabio De Visintini, o il funzionario Ejarque, grande esperto di mostre di cassetta. Perché allora meravigliarsi che un’opposizione, da sempre ostile al Centro, finirà per togliere alla Regione una sua ricchezza?».


In Friuli Venezia Giulia attorno all’arte contemporanea si sta creando una grande attenzione di pubblico e di stampa, grazie al fermento della creatività e delle proposte curatoriali. Oltre a questo dato di fatto, quali sono i motivi fondamentali per i quali è necessario continuare a promuovere questo fronte?

«Il motivo è uno solo. Abbiamo passato un confine generazionale, il pubblico vuole arte contemporanea perché è il riflesso della realtà in cui vive. Ci sono quelli che io chiamo i baby millenari, ovvero quei giovani nati alla fine degli anni 80, che oggi hanno già un bagaglio culturale contemporaneo. Inutile continuare a vendere la bufala degli Impressionisti, Kandinsky e via di seguito. Con l’arte contemporanea girano budget inferiori per tutto, quindi meno persone che possono guadagnare, e questa è una delle ragioni per la quale si dice che l’arte contemporanea non la vuole nessuno, ma non è vero».


Qualche suggerimento per il futuro dell’arte contemporanea in regione?

«Avete fatto un investimento con il Centro d’Arte Contemporanea a Villa Manin. Non trasformatelo in una perdita. Non c’è bisogno del critico internazionale, i bravi professionisti hanno capito benissimo come si fa a far funzionare un’istituzione contemporanea, e ora in più ci sono individualità nella regione che, grazie al Centro e alla loro capacità professionale, hanno acquisito una conoscenza di gestione di progetti legati all’arte contemporanea. Siamo partiti con gente che ci guardava come marziani, oggi queste persone sanno costruire un budget di spedizioni, fare contratti ad artisti, organizzare installazioni e assicurazioni. Sarebbe un peccato rispedirli dentro la burocrazia amministrativa. Nel parco ci sono opere per le quali sono stati già stanziati fondi affinché rimangano permanentemente. Mi dicono, invece, che il consiglio vuole rispedirle via per motivi di Sovrintendenza. Peccato».


Tra lei e Marco Goldin, curatore delle mostre di Treviso e Brescia, recentemente c’è stata una polemica, che non riguarda il Friuli bensì il Veneto e Parigi. Avete però aperto una questione che è bene tenere presente anche qui, perché riguarda modalità gestionali e comunicazionali di grandi mostre e grandi investimenti.

«Lo ripeto, le mostre sugli Impressionisti sono alla frutta, costano sempre almeno tre volte un programma e una gestione annuale della villa. Portano gente ma la riportano anche via. Noi abbiamo costruito uno zoccolo duro di pubblico che compete con il Castello di Rivoli a Torino, che è lì da più di vent’anni. Proprio Ejarque credo fosse l’organizzatore di una mostra a Torino durante le Olimpiadi -
Gli Impressionisti e la Neve
- che è costata uno squasso e per la quale c’è nell’amministrazione pubblica torinese chi si sta leccando ancora le ferite. Come direbbe Nanni Moretti “Volete farvi del male?”. Allora portate a villa Manin
Gli Impressionisti e il frico
, chiamate Philippe Daverio a fare una mostra sulla storia della ruota da bicicletta nell’arte da Manet a Orozco. Se trovate un altro museo in Italia da dove sono passati in quattro anni i nomi che sono passati a villa Manin fatemi un fischio. Non abbiamo avuto la fila fuori dal cancello, ma la gente è venuta costante e contenta. Auguri e comunque grazie perché per me è stata un’esperienza incredibile».

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