Angelo Santarossa prete da 60 anni «L’orto e la terra sono la mia anima»

L’INTERVISTA
Enri Lisetto
Il 3 luglio di sessant’anni fa monsignor Angelo Santarossa veniva ordinato sacerdote. Cappellano militare dell’Esercito, dei vigili del fuoco e della Polizia di Stato, parroco di Montereale, volto noto della tv, 87 anni, nella casa natale di Palse, rievoca alcuni episodi di ieri e di oggi.
Tutto comincia con l’allora parroco di Palse don Francesco Cum.
«“Perché dopo le elementari non vai in seminario?”, mi chiese. Risposi: “Non ci sono soldi”. Ero quarto di 14 fratelli. “Ghe penso mi”, replicò. Mi accolse in canonica dove, oltre a servir messa, curavo l’orto, la mucca, i canarini. Mi pagò la retta delle medie. Era sempre in mezzo alla gente, fu naturale ammirarne l’esempio».
Torniamo alle elementari.
«Nel 1943 persi due anni, che poi recuperai, per lavorare a Tamai. Finite le elementari la maestra Carla Calabretto venne disse ai miei genitori: “El gà testa per andar avanti, mandélo a scuola”. L’aiuto del parroco fu fondamentale».
Com’era la vita in seminario?
«Di miseria. Eravamo in 300: alla sera un cucchiaino di marmellata e un pezzetto di polenta».
Maturità classica, quindi la teologia.
«Studiavo lavorando l’orto, il vigneto e la stalla del seminario per pagare la retta. Del resto ero abituato da casa e mi piaceva».
A 26 anni un imprevisto.
«Il vicerettore Eugenio Filipetto espresse parere contrario al diaconato. Così, mentre i miei compagni venivano ordinati, a me arrivò la cartolina: 89° reggimento fanteria ad Albenga. Fu durante la naja che decisi di fare il cappellano militare».
Dopo 16 mesi, il congedo.
«Con la valigetta e la vecchia bicicletta di papà mi ripresentai in seminario. Nessuno, in quel periodo, mi aveva chiamato né, al ritorno, mi chiese com’era andata. Però la mia cameretta c’era ancora. Studiai e recuperai tanto che venni ordinato diacono e poco dopo sacerdote, a San Giovanni di Casarsa, con i miei compagni».
Come fu la notte prima?
«Andai nei sotterranei del seminario, dove sovente studiavo, mangiai frutta e bevvi mezzo litro di vino. Mi addormentai pensando se il giorno dopo la mia numerosa famiglia sarebbe venuta all’ordinazione. E lì, all’alba, mi trovarono».
La prima messa?
«Ad Albenga, dove avevo fatto il militare. Con gli amici il pomeriggio andammo al Casinò di Sanremo. La domenica successiva celebrai a Palse. Al pranzo, in casa, mamma mi mise capotavola. Arrivò papà Giovanni, girò attorno alla tavola e disse: “El pol diventar anca papa, ma questo l’è el me posto”. Mi spostai, comprendendo il detto evangelico beati gli ultimi perché saranno primi».
Mamma Italia fu cavaliere al merito della Repubblica.
«Durante la guerra nascose nel granaio per quasi due anni tre siciliani destinati al campo di concentramento. Dopo 25 anni venni nominato cavaliere anch’io. Si chiese il perché ed esclamò: “El to atestato metilo in tel armeron, che nol val nient”».
Mai avuto cedimenti?
«A 18 anni frequentai una ragazza di Roraipiccolo. Forse per questo in prima battuta fui scartato. Ma non vi fu dubbio: non mi bastava l’affetto di una persona. Volevo voler bene a una comunità».
Primi incarichi di cappellano a Spilimbergo e San Giovanni di Casarsa.
«Nel frattempo anche per tre mesi in Svizzera. Da lì mi chiamarono per fare il cappellano militare. Il vicario generale mise il veto: “Dici qualche anno, ma non rientrerai più, no”. Roma forzò la mano e venni autorizzato. Il 26 maggio 1967, grazie alla mia Simca 1000, ero al Battaglione addestramento reclute della Julia a L’Aquila».
Seguirono molti incarichi.
«Dopo due anni in Abruzzo, ne trascorsi cinque in Calabria, poi a Palmanova, Pordenone e Vittorio Veneto, al V Corpo d’armata».
Aneddoto dalla Calabria.
«Tornato a casa in licenza, non trovai i miei genitori. Erano partiti per il Canada dove si erano trasferiti alcuni miei fratelli. Si trovarono così bene che rimasero lì otto anni».
Ha avuto modo di incontrare molte persone note.
«Viaggiai in nave e discussi per cinque giorni con Oriana Fallaci, mentre stava scrivendo Inshallah: una donna intelligente che non aveva paura di niente e di nessuno. A Roma, trascorsi un pomeriggio con Pier Paolo Pasolini (che frequentai quand’eravamo a Casarsa) un mese prima dell’assassinio».
Nel 2000 è parroco di Montereale Valcellina.
«Una mattina, mentre legavo i pomodori nell’orto, mi telefonò il vescovo Ovidio Poletto: “Ho bisogno di te”. Mi chiese di diventare parroco. Alcune settimane dopo mi richiamò per allargare il mandato a Barcis. Poi ad Andreis. “Eccellenza – gli dissi con rispetto – a questo punto mi affidi tutta la Valcellina. Furono dieci anni bellissimi, respirai i tempi di don Francesco Cum».
Crede, sempre e comunque?
«L’aldilà è un mistero. Se capissi il mistero sarei Dio. Invece, chino il capo e dico: credo perché non sono capace di capire».
Dieci anni fa il malore e il coma.
«Rimasi in rianimazione per una settimana. Fu la prima esperienza con l’aldilà. Stavo benissimo, sentivo tutto, vivevo come in un sogno tanto che non avevo alcuna voglia di svegliarmi. Per fortuna è andata bene. Anche i medici si stupirono della ripresa e alcuni, tempo dopo, mi accolsero con un... “Ma lei non era morto?”».
Monsignore, 60 anni da prete.
«Rifarei tutto, compresi sentimenti ed emozioni. Dubbi e debolezze non li ho avuti nemmeno davanti alle disgrazie. Amo la terra, che è stata ed è la mia anima, i pomodori, i fagiolini, le patate che raccoglievo e portavo a Montereale. Sono soddisfatto di quello che ho fatto, non ho rimpianti o nostalgie».
Non le mancano le battute...
«Forse sarei stato un ottimo padre e forse anche un buon marito, ma non ho trovato la donna giusta». —
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