Aneddoti di casa Basaglia laboratorio d’una rivolta

La piccola Alberta che, da Venezia, arriva nel 1961 a Gorizia e sperimenta subito la “diversità” perché in quella quarta elementare che frequentava era l’unica, fra tante “divise” bianche, a portare un grembiulino arancione. O che la sera si vedeva piombare in casa decine di persone che, come i cavalieri della tavola rotonda guidati da Re Artù, discutevano per ore, mentre lei, per vedere Carosello, doveva andare dai vicini perché la tv, in quell’appartamento all’ultimo piano del palazzo della Provincia, era off limits. Il muro del confine con i buchi, e i ritorni del sabato a Venezia, dove a piazzale Roma, il papà trovava immancabilmente ad attenderlo il signor Toni, del quale leniva le sofferenze con lunghe chiacchierate terapeutiche al tavolino di un bar.
Cinquant’anni dopo, gli aneddoti privati di casa Basaglia, lo psichiatra che ha chiuso i manicomi rivoluzionando l’assistenza ai malati di mente, sono diventati pubblici grazie a un libro bellissimo (“Le nuvole di Picasso. Una bambina nella storia del manicomio liberato”) che la figlia Alberta ha scritto con la giornalista Giulietta Racanelli e che ieri è stato presentato a Gorizia, in un ridotto del Verdi troppo piccolo per ospitare la folla, numerosissima.
Dev’essere costato parecchio, ad Alberta (che fa la psicologa e, dopo aver fondato a Venezia un centro sulla violenza contro le donne, segue ora le politiche giovanili), rovistare nel baule dei ricordi, metterli su carta e “regalarli” ai lettori. Perché nella conversazione al Verdi è emersa la ritrosia di una donna che, quando l’équipe del film “C’era una volta la città dei matti”, rappresentata ieri da Fabrizio Gifuni – mirabile Franco Basaglia nella fiction –, andò a casa a trovarla, nascose accuratamente tante fotografie dell’epoca, «perché avevo paura – ha detto – che mi rubassero l’anima».
Eppure alla fine il libro ha visto la luce, «perché ho pensato – ha detto Alberta Basaglia – che in fondo anche da questa mia piccola storia si potesse capire tutto il resto».
Intervistata dal giornalista Roberto Collini («È vero solo in parte – ha rimarcato – che Gorizia si comportò male con Basaglia, perché forse solo qui, in una cittadina che prestava particolare attenzione al sociale, Franco poteva trovare quell’ambiente, adatto a mettere in pratica le sue idee, che non c’era a Padova, da cui arrivò come in esilio») Alberta ha rievocato quei ruggenti anni Sessanta visti (nemmeno troppo bene – ha scherzato – a causa di un difetto congenito che la induceva a guardare le cose con la testa reclinata imbastendo surreali dialoghi, sull’argomento, con il padre) con i suoi occhi di bambina e poi ragazza cresciuta col fratello Enrico da due genitori, Franco e Franca Ongaro, che la lasciavano vivere, senza essere invadenti o intervenire a sproposito.
A supportare ricordi e personaggi – nonna Cecilia, il cugino Vittorio, quello di Marco Cavallo a Trieste – le letture di Gifuni, per il quale Basaglia fu «l’artefice dell’unica vera rivoluzione che ci sia mai stata in Italia». E prima ancora, in mattinata, un amarcord con la visita al vecchio appartamento in Provincia accompagnata dall’assessore Ilaria Cecot e due ore d’incontro con tre classi delle Magistrali, parlando di salute mentale e disagio con gli studenti, il direttore dell’Ass Marco Bertoli, quello del Dsm Franco Perazza e lo stesso Gifuni.
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