342 ore sulle Grandes Jorasses

di René Desmaison

Corbaccio


Prima edizione 2007

184 pagine
16,60 euro

di Luciano Santin

Trecentoquarantadue ore, più di due settimane. Una bella vacanza lunga, di quelle non più in voga. Che a consumare i giorni su una spiaggia passano in fretta, ma che in parete a quattromila metri, sotto l’infuriare della bufera, possono valere una vita. O una morte. Torna il libreria, per i tipi di Corbaccio,
342 ore sulle Grandes Jorasses
, di René Desmaison. Grande classico della storia alpinistica, resoconto di un dramma che può reggere il confronto con quelli dell’Eigerwand, del “naufragio” sul Bianco e del Pilone centrale, testimonianza amara di come le meschinità umane affiorino anche in montagna, rischiando di tagliare quel filo di speranza, più sottile della corda, cui sono tavolta appese le sorti degli scalatori.


Desmaison è uno dei talenti indiscussi dell’alpinismo internazionale. Nato nel 1930 nel Perigord, e trasferitosi da ragazzo a Parigi, inizia nel gruppo del
Bleausards
(gli arrampicatori di Fontainebleau) quella che sarà una carriera, costellata da arrampicate di grande completezza e di altissimo livello. Tra le sue prime, vanno annoverate la parete ovest del Dru e la nord dell’Olan in invernale, il Pilone Centrale del Frêney, il Linceul sulle Grandes Jorasse, la Couzy alla Ovest di Lavaredo, lo Jannu e alcune delle vie tecnicamente più difficili dell’America Latina.


Secondo Giampiero Motti, il francese è inferiore solo a Walter Bonatti, al quale lo accomunano, oltre che la straordinaria attività di punta, l’essere stato il bersaglio di critiche malevole, dettate probabilmente solo dall’invidia e l’avere per questo rischiato la vita (e forse anche il rimanere, oggi, tra i superstiti di una generazione che ha lasciato molti caduti sul campo).


Nel 1966 si registra l’episodio che lo renderà inviso a molti professionisti dell’alta quota, tra cui Maurice Herzog, feroce capospedizione all’Annapurna e poi capo del Pshm (il soccorso francese di alta montagna): assieme a Mick Burke e a Gary Hamming, Desmaison porta in salvo due alpinisti tedeschi bloccati sulla ovest del Petit Dru. Un’impresa spettacolare, compiuta in condizioni rese difficilissime dal maltempo, che però è uno smacco per i soccorritori ufficiali, mossisi in modo meno efficace (e forse insufficiente a salvare la cordata in difficoltà). Qusta insubordinazione costa a Desmaison la radiazione dalla Compagnie des Guides di Chamonix. Poi, cinque anni dopo, quando si tratterà di intervenire per soccorrere René, le guide e il soccorso se ne ricorderanno, rinunciando, di fatto (per non rischiare una catastrofe di maggiori proporzioni, per insipienza, per “fargliela pagare”? L’autore non mostra dubbi in merito). Nel 1970 Desmaison è al Chörten, il suo chalet sotto le Aiguilles Rouges, intento alla revisione de “La montagna a mani nude”, il suo primo libro, quando riceve la visita del ventitreenne Serge Gousseault, uno dei migliori alpinisti della sua generazione, tirocinante guida, che gli chiede di effettuare un’ascensione assieme.


Nel febbraio successivo, i due progettano la salita dello sperone centrale delle Jorasses, una prima invernale. Poi però trovano la via impegnata da un’altra cordata, e decidono di attaccare la diretta alla Punta Walker. E’ il 10 febbraio 1971: René e Serge attrezzano due lunghezze di corda, lasciano il materiale alla base della parete e scendono al rifugio, decisi ad attaccare l’indomani. Per uscire in cima, pensano, occorrerà qualche giorno. Invece ce ne vorranno quindici perché i due alpinisti - uno vivo l’altro morto – ritornino a valle. Gousseault non è in forma piena: l’anno prima aveva sofferto di problemi di decalcificazione, ma li ha tenuti nascosti a Desmaison, per timore che questi non lo prendesse con sé.Dopo i primi giorni, in cui la salita sembra andare normalmente
bene, comincia a procedere a rilento. Per guadagnare un po’ di tempo si toglierà i guanti, e questo risulterà poi decisivo: con le mani fuori uso, non riscirà più a recuperare i chiodi.

Già il 15 febbraio Desmaison pensa a un possibile ripiegamento: ci sono viveri soltanto per due giorni ancora, e i 300 metri alla cima (che in condizioni normali potrebbero impegnare uno o due giorni) promettono di essere i più difficili, perché ci si è messo di messo il maltempo e Serge non sta bene. Con una quindicina di doppie i due potrebbero arrivare al pendio del Linceul, e di lì scendere sul ghiacciaio del Laschaux. Ma una corda è stata tranciata, e dei quindici chiodi da ghiaccio che occorrerebbero per la calata non ce ne sono che tre. Così la cordata continua. Con bivacchi sospesi, con la seconda corda che viene anch’essa tranciata da un masso, con il secondo che usa soprattutto i piedi, dev’essere recuperato quasi di peso, e non ha la possibilità di fare sicurezza.

Il 22 febbraio, quando Serge muore di sfinimento, René si sente tradito. Lo maledice («Sei un mascalzone! Hai sentito? Un mascalzone! Io sono rimasto qui con te e tu te ne sei andato»), ma, anche se ha ancora energie, rinuncia ad abbandonarlo («Qualcosa si era spezzato dentro di me. Con la sua morte, Serge mi aveva restituito la libertà, ma io non potevo abbandonarlo ugualmente. Egli era lì, vicino a me. Eravamo ancora insieme»).


Le guide locali dicono che è impossibile salvarlo: causa il vento gli elicotteri non possono posarsi sulle Jorasses. Sinché non interviene il soccorso alpino di Grenoble, e un Alouette III guidato da Alain Frébault dopo due prove, riuscite perfettamente, trasporta in vetta cinque guide, che attrezzano la calata con il verricello.


Il racconto è emozionante, nel continuo cambiamenti di scenario tra la parete e il mondo in cui è rimasta Simone, la moglie di René. E descrive una delle pagine più forsche nella storia dell’alpinismo: in un tourbillon di malintesi, formalismi, rivalità, forse incompetenze e ripicche Desmaison viene infatti accusato (quando è in parete e poi anche una volta salvato), di aver forzato Gousseault alla salita per non perdere la prima salita, e di aver “rifiutato” i soccorsi (un elicottero si era avvicinato, ma i suoi segnali di aiuto non risultavano quelli ufficiali).

Storia tesa, epica, terribile per quanto riguarda la questione dei soccorsi. Nel 2005, a l’Argentiere, è stata dedicata una piazza a René Desmaison, per i suoi settant’anni e le sue oltre mille vie (di cui 114 prime). A festeggiarlo, alcuni alpinisti di più generazioni: Lesueur, Bérardini, Paragot, Mazaud. E il salvatore, quell’Alain Frébault che è accomunato a Serge Gousseault nella dedica del libro.

Due anni più tardi – qualche mese fa, insomma - il grande vecchio dell’alpinismo francese se n’è andato, in silenzio.

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