Femminicidi e mentalità maschilista: fino a dove si spinge la malvagità di un uomo

La provocazione di una lettrice dopo i fatti di cronaca nera e le motivazioni della sentenza sull’omicidio di Elisabetta Molaro, uccisa con 70 coltellate dal marito. Per il giudice: «Non ci fu crudeltà»
 

Paolo Mosanghini
Omicidio Giulia Tramontano. Fiori, messaggi e pupazzi e molte persone sul luogo del ritrovamento del corpo della ragazza
Omicidio Giulia Tramontano. Fiori, messaggi e pupazzi e molte persone sul luogo del ritrovamento del corpo della ragazza
Questa è la rubrica della posta dei lettori: selezioniamo una lettera arrivata in redazione, risponde il direttore

Egregio direttore

mi riferisco a un recente articolo apparso sul Messaggero Veneto in merito alla sentenza di condanna per l’omicidio di Elisabetta Molaro.Non sono esperta in materia legale ma leggendo l’articolo da cittadina comune e senza nessuna polemica, mi sorgono spontanee delle riflessioni.

Prima di tutto mi sono chiesta perché sia stato pubblicato questo articolo. Forse per far digerire all’opinione pubblica una sentenza a dir poco “sconcertante” riportandone le motivazioni? Ma se queste sono le motivazioni, sono ancora più sconcertanti della sentenza.

Quanto vale la vita di Elisabetta? A lei non sono più concessi sconti di pena, è morta per sempre. Alle sue due figlie non sono concessi sconti di pena, saranno devastate per sempre da questo evento che le ha rese orfane. Alla mamma di Elisabetta non sono concessi sconti di pena, ha perso per sempre sua figlia.

E invece al signore in questione sì, quante attenuanti sono state concesse per essere condannato a soli 24 anni. E di quanti altri sconti di pena poi usufruirà?

Facendo dell’ironia si potrebbe dire che, anzi, è stato bravo perché l’ha uccisa subito ai primi fendenti, così poi la vittima non ha sofferto in seguito a tutti gli altri colpi inferti e questo gli è valso un bello sconto di pena! È la giurisprudenza a insegnarlo. Settantuno coltellate non dimostrano la malvagità d’animo, è stato solo un gesto d’impulso.

Ma cosa bisogna fare allora per essere considerati “malvagi”? Quante coltellate bisogna infliggere?

E poi ha anche manifestato rammarico durante l’udienza, si è detto dispiaciuto, e poi, e poi... così, per un algoritmo giuridico schiva l’ergastolo e la vittima in realtà non è mai entrata in quell’aula di tribunale.

E quindi quanto vale la vita di una persona?

E allora, non parliamo più di combattere contro la violenza sulle donne, è solo pura retorica e ipocrisia. Nulla è cambiato e infatti le donne continuano a morire.

Meglio appendere al chiodo le scarpe rosse fino a quando su questo argomento non cambierà la giustizia e non cambierà la mentalità dei giudici e degli uomini.


Cara lettrice,

ci ha chiesto di mantenere l’anonimato e lo farò. La sua lettera è attualissima. In questi giorni il delitto di Giulia Tramontano che portava in grembo un bimbo di sette mesi, accoltellata mortalmente dal suo compagno, ha scosso tutta l’Italia: fin dove può arrivare la brutalità di una persona? Ce lo siamo chiesti decine e decine di volte, le cronache ne parlano tutti i giorni.

Lei mi domanda perché sia stato pubblicato quell’articolo, riferendosi poi alla malvagità dell’uomo. Le sue parole, in particolare, fanno riferimento alla condanna di Paolo Castellani a 24 anni di reclusione per l’omicidio della moglie Elisabetta Molaro, esclusa l’aggravante della crudeltà.

Lo sfogo
Le loro figlie sono state uccise, la rabbia delle famiglie Puzzoli e Orlando: «Condanne più severe e niente sconti»
Sopra Paolo Castellani tra i suoi avvocati e a fianco i giudici; sotto, da sinistra, Elisabetta Molaro, Lisa Puzzoli e Nadia Orlando

Settantuno coltellate possono esulare da una valutazione di «crudeltà»? L’articolo della collega Luana de Francisco è stato pubblicato per spiegare ai nostri lettori le motivazioni che hanno portato i giudici a emettere una sentenza che ha deluso familiari e amici della vittima. Chi vive un dolore così profondo ha motivo di chiedersi perché il giudizio non sia stato diverso, la mente va a Elisabetta che ha sofferto, a lei che con quell’uomo aveva percorso un tratto di vita costruendo una famiglia. La collega ha fatto cronaca, ai lettori il compito di valutare e anche di indignarsi.

Quanto vale la vita di una persona, mi chiede. Stesso quesito che ci si pone quando viene a mancare un proprio caro e il risarcimento in danaro è considerato inadeguato. Le variabili sono tante, o troppe. E quasi mai trovano sintesi in una sentenza che a tutti vada bene, le parti coinvolte portano nel giudizio il proprio coinvolgimento emotivo che rende ancora viva e vicina la persona amata che è stata uccisa. C’è la magistratura che dovrebbe stare al di sopra delle parti per una valutazione senza implicazioni.

È un tragico copione che sembra ripetersi con variazioni minime: circostanze, armi del delitto, luoghi. Non cambia di molto il problema di fondo e cioè il motivo per cui gli uomini uccidono le donne che fanno parte della loro vita. Un terreno che comprende possesso, incapacità di accettare la fine di una relazione, desiderio di controllo, rigetto della libertà altrui. Una supremazia di genere e culturale inaccettabile, d’altri tempi.

È nostro dovere combattere contro la violenza sulle donne, è un nostro impegno sociale al quale non possiamo abdicare perché una sentenza non ci aggrada. Sarà retorica, ma non è ipocrisia. Le iniziative che lei ricorda, come le scarpette rosse macchiate di sangue, sono un amplificatore necessario per accendere i riflettori su questi temi.

Sensibilizzare significa educare, forse solo in questo modo, con molta pazienza e nel tempo, possiamo vedere modificata quella che lei definisce “mentalità”. Questo è il compito sociale per Elisabetta, per Nadia, per Lisa. Sono soltanto alcuni dei nomi di ragazze uccise negli ultimi anni in regione. Lo dobbiamo a loro, ai loro genitori, ai fratelli, alle sorelle e in alcuni casi anche ai figli che sono stati privati della mamma per mano del loro papà.

Accanto alla legge, al senso civico e alle prassi investigative, c’è il sentire comune. In Italia, nel 2022, sono state assassinate 125 donne, di cui 103 in ambito familiare. Tra il 1° gennaio e il 28 maggio di quest’anno, i femminicidi sono stati 45: in ventidue casi, a uccidere è stato il partner o l’ex. Dati che ricalcano i numeri degli anni passati. Il fenomeno non si limita solo al nostro Paese: nel 2021, in tutto il mondo, ogni ora ci sono stati cinque femminicidi commessi da familiari delle vittime (lo hanno calcolato due agenzie delle Nazioni Unite, UN Women e UN Office on Drugs and Crime, nel 2022).

Appendere le scarpe rosse? Voglio sperare che la sua sia soltanto una provocazione. Di fronte a questo abominio non ci può essere rassegnazione. Questo proprio no

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