Voto femminile e diritti da tutelare, ecco gli assi nella manica di Kamala Harris

La candidata democratica ha puntato, oltre che su tradizionale elettorato urbano e progressista delle coste, dagli Stati dell’Est alla California, sui ceti medi, le donne, un blocco etnico che va dai neri agli ispanici

Renzo Guolo

A pochi giorni dal voto, Kamala Harris sembra in leggero vantaggio su Trump nel voto popolare. Così almeno dicono i sondaggi, peraltro sempre da prendere con le molle quando il margine di scarto è, come in questo caso troppo, esiguo.

Anche perché, a dispetto della narrazione che vuole il presidente americano eletto direttamente dal popolo, il sistema elettorale che regola la corsa alla Casa Bianca si fonda sulla conquista dei delegati nei collegi elettorali negli Stati, dove poche migliaia di voti possono fare la differenza.

Insomma, come è ben noto a Hillary Clinton, che nel 2016 ottenne contro lo stesso Trump tre milioni di voti in più, se il rivale ha un più alto numero di delegati la vittoria gli arride.

Per vincere una simile competizione bisogna mettere insieme pezzi di società più che un’alleanza tra partiti: nonostante le crepe il bipartitismo Usa regge ancora. Harris ha puntato, oltre che su tradizionale elettorato urbano e progressista delle coste, dagli Stati dell’Est alla California, sui ceti medi, le donne, un blocco etnico che va dai neri agli ispanici.

Una coalizione sociale cementata dalla convinzione che Trump rappresenti un rischio, oltre che per interessi di quei segmenti di popolazione, per la democrazia a stelle e strisce.

Secondo gli strateghi della campagna di Harris, un simile schieramento dovrebbe sbarrare la strada alle pulsioni, tipiche del populismo Maga (acronimo dello slogan trumpiano Make America Great Again) che fa appello ai più svantaggiati e ai poveri e chiede loro, dopo averne solleticato i radicati istinti antielitari che rendono da tempo incomponibile la frattura culturale americana, di affidarsi a un ricco tycoon che si spaccia per antisistema.

Insistendo nella rappresentazione che vede i democratici come il partito dell’establishment e dei ricchi, - come confermerebbe l’ennesima mobilitazione dello star system canoro, da Taylor Swift a Bruce Spingsteen , e hollywoodiano a favore di Kamala -, i repubblicani in versione Trump si propongono come i soli difensori dell’America dei poveri, dei dimenticati, di quanti vivono lontano dai grandi centri come New York o San Francisco, città cosmopolite e aperte per la loro stessa natura oceanica.

Se in materia economica Harris è decisamente “ centrista”, collocandosi sul filo dell’obamismo nel timore che ricette economiche imperniate su una più incisiva redistribuzione del reddito e una maggiore spesa pubblica la facciano apparire vicina, più che a Biden, all’intoccabile “socialista” Sanders, Kamala ha puntato molto sui diritti delle donne.

Insistendo non tanto sull’identità di genere quanto sul piano dei diritti civili: a partire dalla libera scelta femminile in tema di aborto, a rischio con una nuova presidenza Trump, che vorrebbe bandirla a livello federale anche con l’ausilio di una Corte suprema ritagliata da The Donald, già negli anni del suo mandato, a propria immagine e somiglianza.

O dall’assistenza a quante sono vittime di violenze sessuali, tema che, tra l’altro, mette in difficoltà il rivale, a giudizio anche per simili reati.

Del resto, Harris è decisamente meglio posizionata di Trump tra l’elettorato femminile: anche tra le donne di colore. Semmai qui l’interrogativo, esplicitato palesemente da Barack e da Michelle Obama, è che i maschi neri vadano a votare in massa per lei e non si astengano in nome di un poco confessabile atteggiamento “machista”.

Le misogine considerazioni sulle donne non consentono, invece, a Trump di fare breccia in quell’elettorato. Su questo specifico segmento elettorale alcuni sondaggi danno un vantaggio di quasi venti punti a Harris.

Nel tentativo di limitare i danni in questa importante, mobilitata, fascia elettorale, la squadra del tycoon ha cercato di sottolineare come donne siano diventate meno sicure e più povere con Biden e Harris alla Casa Bianca.

E, nelle ultime ore, lo stesso candidato repubblicano ha reagito ai pronostici sfavorevoli con un paternalistico, e poco credibile «proteggerò le donne, che vi piaccia o no», che potrebbe rivelarsi un boomerang.

Harris ha invece glissato su temi scottanti - per lei come per ogni altro candidato democratico -, come immigrazione e sicurezza che, in America come altrove, vengono strettamente legati, rendendoli indistinguibili e funzionando da volano per le forze politiche che ne fanno oggetto di mobilitazione ostile.

Un altro punto su cui Kamala non si è pronunciata con nettezza, mostrando una decisa continuità con la politica di Biden, è il conflitto mediorientale.

Sul punto Harris si è mostrata, così come sull’Ucraina, in linea con l’amministrazione della quale fa parte. Anche a costo di perdere il sostegno degli elettori arabi e musulmani - decisivi in alcuni parti del bluewall del Midwest, il “muro” democratico degli Stati centrali, come il Michigan, in cui la tenuta dell’elettorato dell’Asinello è decisivo per la vittoria -, o tra i giovani, che chiedono a Kamala una linea meno accondiscendete e impotente nei confronti di Israele di quella di Biden.

La scelta di Harris è stata, invece, mantenere uno stretto rapporto con la comunità ebraica, tradizionale bacino elettorale democratico. Nell’auspicio che consenta comunque la vittoria.

Harris ha puntato molto sul presentare la sfida del 5 novembre come la scelta tra l’America che vuol restare faro globale delle libertà o quella che potrebbe diventare la culla di una tirannia sovranista, destinata a mettere in pericolo il ruolo della democrazia nel paese e nel mondo.

Mandando in tal modo in soffitta l’imprescindibile unità tra soft power, il potere di persuasione che viene dallo stretto nesso tra libertà e cultura, e hard power, il potere militare, che ha consentito agli Usa di esercitare un’egemonia mondiale che dura da circa ottant’anni. Kamala conta che la percezione del rischio illiberale costituito da Trump sia divenuto senso comune e che, nelle urne, funzioni da deterrente.

Facendo segnare il passo allo scontro tra “ tribù” alimentato dal demagogico tycoon, che alla coesione sociale mediata istituzionalmente preferisce un’arena politica solcata da continue tensioni che si scaricano lungo le consolidate fratture centro/periferia, città/campagna, coste contro interno terraneo, meticciato/ etnicismo, democrazia/autoritarismo.

Basterà? Ancora pochi giorni e si capirà se avremo davanti un’America nota o una assai più problematica. E, di riflesso, se e come cambierà il mondo.

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