Trent’anni fa l’omicidio di Caterina Britt, parla il figlio: «Mia madre uccisa perché sapeva troppo, si riapra l’inchiesta»

L’assassinio avvenne il 2 dicembre 1995 nel guado tra Vivaro e Rauscedo. Il figlio Davide: «Quel giorno disse che avrebbe festeggiato, ma non tornò più». «Penso volesse chiudere col passato, potrebbe essere stato fatale un ricatto»

Trent'anni fa l'omicidio di Caterina Britt, rimasto irrisolto. Il figlio, che le fu tolto e dato in adozione, ha scavato nel passato e ricomposto i tasselli del mosaico. «Ditemi chi ha ucciso mia mamma». Nato ad Aviano, ha trascorso infanzia e gioventù a Trieste; oggi, a 39 anni, vive a San Giovanni al Natisone ed è impiegato all'Asufc di Udine.

Chi è Davide Britt?

«Il figlio di Caterina Britt e di padre ignoto. Non ho alcuna fonte per poter risalire a lui. Viceversa, se qualcuno avesse fotografie o notizie di mia mamma gli chiederei di contattarmi».

Quanti anni aveva il 2 dicembre 1995?

«Nove. Ho vissuto con mia mamma solo pochi mesi, sino al 1987. Era una situazione difficile. Si prostituiva ed era utilizzatrice di stupefacenti. Furono i motivi per i quali le assistenti sociali non mi lasciarono con lei. Avrebbe potuto, se si fosse inserito in un contesto di recupero, continuare a tenermi».

Invece...

«Fui portato via. Era uscita per prendere il latte in polvere e mi lasciò a casa. Arrivarono le assistenti sociali, mi trovarono solo e fui dato in affido, autorizzato nel maggio 1988 da una famiglia di Trieste. I miei genitori mi cambiarono il nome. Vivo di testimonianze».

Ha ricordi della mamma?

«No, neanche il volto. La prima immagine l'ho avuta andando alla biblioteca Joppi di Udine, cercando l'articolo del Messaggero Veneto che parlava del delitto».

Quanto è venuta a conoscenza dell'accaduto?

«Alle medie, facendo il cartellone della vita. Chiesero le foto della nostra infanzia e io non ne avevo. Assieme ai miei genitori adottivi parlai con l'assistente sociale che mi raccontò blandamente le mie origini. Mi disse che sapeva solo che mia madre era morta. Lasciai correre per diversi anni».

Quando ha aperto le porte del passato?

«Nel 2021 ero a casa per un infortunio. Conoscendo la data e il luogo di nascita di mia mamma, Aviano, feci un accesso agli atti. Seppi chi erano i nonni. Cominciai le ricerche».

Cosa trova?

«Nasco da un ambiente al quale sono totalmente estraneo e ho sofferto molto. È un ambiente di droga, prostituzione e intrecci, penso con la mala del Brenta. Mi sono chiesto: perché una persona si riduce così?».

E ha cercato una risposta.

«Scoprii che la nonna era originaria di Vallenoncello. Con le Pagine Bianche in mano cominciai a telefonare, con Street view a vedere. Una condomina mi rivelò: "Tua mamma è sepolta qui a Vallenoncello, ha la foto sulla tomba. Tua nonna e tua zia una croce di legno". Andai nel cimitero. Quando scesi dall'auto con i miei genitori, smise di piovere. Entrai nel cimitero e non sapevo come orientarmi: un raggio di sole illuminò una tomba. Era quella della mamma. Scoprii che non si chiamava solo Caterina, ma Caterina Elena. La stessa donna mi disse che il compagno, colui che ne denunciò la scomparsa, le portava sempre i fiori. Abita nel Trevigiano. Lasciai un biglietto sulla tomba e dopo qualche mese mi chiamò e ci incontrammo lì».

Che le disse?

«Che la conobbe come cliente e si affezionarono. Lui gira ancora con la sua foto nel portafoglio. abbiamo comprato insieme la casa di Castions. Lei continuava a esercitare, anche perché in un giorno guadagnava lo stipendio medio di un impiegato. Ma dalla droga ne era uscita. Quel giorno, nel cimitero, si voltò verso la foto di mia mamma e disse: hai visto Ketty? Tuo figlio ti ha trovata».

E sul 2 dicembre di 30 anni fa cosa le ha detto?

«Quel pomeriggio mia madre si fece la tinta e disse al compagno: “Vai a prendere due birre, quando torno le beviamo”. Come se dovesse festeggiare qualcosa. Sul delitto mi disse: “Per me tua mamma non è stata uccisa dove è stata trovata, ma scaricata”. Percorsi tutto l'itinerario e in effetti mi chiesi: la strada è piena di pubblici esercizi, semafori, case. Perché non ha fatto qualcosa per scappare? Secondo me non è stato un delitto passionale. La settimana seguente dovevamo testimoniare a Treviso. Penso che avremo chiesto soldi per tacere qualcosa. Una sorta di liquidazione e questo deve avere spinto chi l'ha incontrata a viverla come un tradimento. Lo stesso anno, peraltro, si chiude la vicenda della Mala del Brenta».

Oggi?

«Vorrei capire. Le tecnologie sono più avanzate. Secondo me è sempre giusto fare giustizia».

Da quale contesto proveniva?

«Nonna era cameriera in un bar di Pordenone, il futuro marito, originario della Florida, marine alla Base di Aviano. Si sposarono ed ebbero due figlie. Si trasferirono negli Usa. Lui non era tanto amorevole: imbarcò moglie e figlie in un aereo per Milano, senza soldi e senza futuro. Nonna non ebbe nemmeno il divorzio. Le bambine vennero messe in collegio. Ecco perché dico che studio e affetto della famiglia sono importanti. A Pordenone cominciava a girare la droga. Le sorelle erano spiriti liberi. Un ragazzo fece provare la droga a mia mamma: non aveva nulla, se non la bellezza. Cominciò a prostituirsi. Era ancora minorenne. Cercò il successo in Sicilia, a un casting, ma non era maggiorenne».

Il compagno come poteva accettare questa situazione?

«Comandava lei. Lui lavorava a Treviso e la raggiungeva nel fine settimana a Castions. Lei gli disse: questo è il mio lavoro, prendere o lasciare. E lui prese. I clienti le regalavano gioielli, pellicce, tanti soldi. Chi l’ha conosciuta l’ha descritta come una signora che pareva di alta società. Tutto per il denaro. Si faceva piacere, ma non era stupida. Credo sia il motivo per cui ha incontrato la morte. Come volesse una grande cifra per chiudere una vicenda».

E tu?

«Credo di essere stato voluto e sono stato riconosciuto. Portò a termine la gravidanza, difficile peraltro. I medici non si aspettavano che potessi sopravvivere. Poi ho avuto la mia vita».

Quando seppe di essere adottato?

«Vedendo l’ecografia di mia zia - avevo nove anni, nel 1979 - dissi a mia mamma adottiva: anche io ero nella tua pancia. Lei mi rispose: no, tu eri in un’altra pancia».

E il giorno del delitto?

«Mia mamma mi disse: “Ti stavi lavando i denti e io mi stavo truccando quando alla radio dissero nome e cognome della tua vera madre. Gelai”. Ma non mi disse niente. La scoperta consapevole avvenne in seconda media col cartellone della vita».

Le due cose più belle?

«Amare e studiare».

Come sono stati gli equilibri in famiglia?

«La mia famiglia sono mia mamma e mio papà che non mi hanno mai ostacolato. Anzi. La mamma è chi ti dà la vita, la mamma è chi ti cresce. Io e mia madre ci siamo detti: "Dobbiamo essere grati tu a Caterina perché ti ha dato me e io perché ha portato a termine la gravidanza, facendomi nascere. Vogliamo rispetto. Caterina era una persona. Faceva cose di cui si può andare fieri? No. Ma era una persona che ha dato una vita. Essere uccisa per mano di qualcuno mi disturba. Faccio questa intervista anche per me, ne ho bisogno. Meglio sempre una amara verità che una dolce bugia».

Oggi sono trent'anni dall'omicidio, rimasto irrisolto.

«Se qualcuno ricorda la mia mamma, ha sue fotografie, informazioni sul suo conto, mi farebbe piacere saperlo. Ma, soprattutto vorrei, come avvenuto per Annalaura Pedron o per i fatti di Garlasco ora, che le indagini fossero riaperte. Vorrei mettere la parola fine alla vicenda. Per un crimine la parola irrisolto è brutta. Non odio: si odia quando non si capisce. Voglio solo capire».

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